La strada che ha vinto la Grande Sete del Sud si chiama Acquedotto Pugliese. Un’intera regione, quattro milioni di abitanti, ancora oggi deve la sua autonomia idrica al più grande acquedotto d’Europa. Seguirne le tracce in bicicletta per 480 chilometri, da Caposele fino a Santa Maria di Leuca, è un viaggio straordinario alla scoperta di luoghi, storie e persone che popolano quello che potrebbe diventare un itinerario cicloturistico di richiamo europeo, la prima grande infrastruttura di mobilità sostenibile del Mezzogiorno. Il racconto di un Sud possibile, a cavallo tra riscatto sociale e archeologia industriale.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso, uomini pubblici, ingegneri, tecnici e finanzieri idearono un’opera ardita, traducendo in progetto il sogno dei pugliesi di vincere l’atavica sfida con la siccità. Così poco più di cento anni fa, nel 1915, l’acqua del Sele zampillò a Bari per arrivare, nel 1934, una volta completato anche il Sifone Leccese, a Santa Maria di Leuca con la trionfale Cascata monumentale.
Oggi ripercorrere il tracciato della condotta principale dell’Acquedotto Pugliese è uno straordinario viaggio nella storia e nella natura. Sono ancora le ingegnose soluzioni studiate all’epoca ad assicurare lo scorrimento delle acque, che sfruttano la forza di gravità proprio come se scorressero in un naturale letto di fiume: imponenti strutture in pietra, arditi ponti-canale, gallerie sotterranee attraversano l’Alta Irpinia e le Murge prima di arrivare a Bari e proseguire fino alla pianura del Salento, toccando luoghi in cui la bellezza della natura incontaminata si sposa con l’ingegno dell’uomo. Il fiume nascosto supera l’Appennino meridionale e le Murge grazie ad opere che furono realizzate con soluzioni tecnologiche considerate all’epoca d’avanguardia e che ancora oggi sono per la gran parte perfettamente funzionanti.
Un’opera colossale, che negli anni d’oro vide contemporaneamente impegnati 22 mila operai, oltre 60 ingegneri e 400 geometri, ma che ha bisogno di un’attenzione nuova per trasformare case cantoniere, impianti di sollevamento, magazzini e officine sparsi lungo il tracciato, e non più utilizzati, in gioielli dell’archeologia industriale del Mezzogiorno e tappe di una narrazione di una lotta per la vita che si rinnova ancora oggi.
Quello che segue è il racconto di Roberto Guido della prima “cicloesplorazione” del tracciato dell’Acquedotto Pugliese, da Caposele a Santa Maria di Leuca, compiuta tra il 27 agosto e il 1° settembre 2015 da quattro cicloturisti (Cosimo Chiffi, Marco Taurino e Simone Bosetti, oltre all’autore).
Prologo
26 agosto, Caposele: visita guidata alle sorgenti del Sele
Per entrare ci vuole una specifica autorizzazione. Solo così si può varcare il cancello dell’impianto del “chilometro zero” dell’Acquedotto Pugliese. Questo è un sito sensibile, perché qui, da questa preziosa acqua dipendono i destini di quattro milioni di persone, quasi tutti pugliesi naturalmente. Dunque, si entra perché da Bari è arrivato il via libera e Lorenzo apre le porte dell’impianto che, non a caso, è protetto anche dalla presenza di una caserma dei carabinieri.Un ampio spiazzo verde, una sorta di terrapieno nasconde un grande muro, “un diaframma”, spiega Lorenzo, che cattura la quasi totalità delle acque della sorgente. Solo il dieci per cento resta nell’originario letto del Sele che non scende verso la Puglia ma convoglia le sue acque sul versante tirrenico del Mezzogiorno, a Paestum. Originariamente da qui sgorgavano ottomila litri al secondo, oggi “solo” quattromila.
Per realizzare questa ardita opera, all’inizio del secolo scorso (i lavori iniziarono nel 1906) i tecnici dell’epoca optarono per deviare alla fonte il corso del Sele, proprio nell’area dove sorgeva l’antica Chiesa della Madonna della Sanità. Per vincere le resistenze della comunità locale, si decise di spostare la chiesa di alcune centinaia di metri, ricostruendola pietra su pietra. L’edificio sacro oggi sorge nella piazza del paese mentre il campanile è stato lasciato al suo posto, subito dietro l’impianto delle sorgenti.
Qui tutto è rimasto praticamente com’era un secolo fa, comprese le paratie che, azionate a mano, possono bloccare il flusso dell’acquedotto, riversando l’acqua nel Sele. È un’evenienza molto rara, che peraltro ha bisogno di delicati accorgimenti per evitare problemi alla popolazione che vive lungo il fiume. Da qui l’acqua si incanala nella Galleria Pavoncelli, un’altra opera ardita che per ben 15 chilometri attraversa il cuore dell’Alta Irpinia. Venne seriamente danneggiata nel violento terremoto del 1980. Riparata, regge ancora oggi l’intera portata dell’acquedotto perché la cosiddetta “Pavoncelli bis”, una galleria parallela che si decise di costruire dopo il sisma, non è ancora stata ultimata.
Chiuso il cancello azzurro delle sorgenti, si viaggia verso l’ostello di Teora. Ma poco prima di uscire da Caposele, su un ponte una brevissima pista ciclopedonale verde annuncia che anche qui c’è posto per le biciclette.
Primo giorno
27 agosto, Teora – Atella
Si parte da Teora, non è una scelta “simbolica” ma casuale. Qui, infatti, ci accoglie l’Ostello della Gioventù realizzato dal Comune in quella che era una scuola di fortuna donata dal Liechtenstein all’indomani del terremoto del 1980. Siamo a quasi 700 metri di altezza e imbocchiamo la strada provinciale 150 iniziando ad affrontare piccole discese e brevi salite per circa sei-sette chilometri, prima di imboccare strade secondarie che attraversano contrada Pescara fino ad arrivare a quota 740 metri. Se l’acquedotto qui corre nascosto, nel ventre dell’Irpinia, le tracce dell’acqua compaiono sotto la forma del Lago di Conza, un invaso che dà poi origine a un altro corso d’acqua, il più importante per la Puglia, l’Ofanto.Si scende dolcemente, pedalando lungo la statale 7 Dir, passando ai piedi di Cairano, “un paese piantato come un meteorite nell’Irpinia d’oriente”, come dice il paesologo Franco Arminio, “dove c’è una desolazione che è anche beatitudine”. Cairano resta per noi un posto fantastico, perché si continua a pedalare sul nastro d’asfalto non molto trafficato, dove però c’è l’insidia dei giganti della strada che qui hanno il volto dei pomodori del Foggiano in viaggio verso il Casertano e delle auto della Fiat che dallo stabilimento di Melfi si dirigono in tutta Italia. Si marcia in fila indiana, qui non bisogna distrarsi, ma certo non siamo né sulla tangenziale di Milano né sul raccordo anulare di Roma all’ora di punta: si pedala nell’aria frizzante, nonostante il sole caldo. L’obiettivo è raggiungere Calitri, salendo da 400 metri a 700 in cinque chilometri.
“Chiedi e ti sarà detto!”: davanti ad una fontanina dell’acquedotto da cui sgorga acqua freschissima, si para davanti a noi un loquace intellettuale locale che non si risparmia in racconti e aneddoti su Calitri e dintorni. E ce ne ha anche per l’acquedotto. Ricordate la famosa frase di Gaetano Salvemini “L’Acquedotto Pugliese ha dato più da mangiare che da bere”? Non era affatto diretta ai meridionali, come una certa letteratura leghista tende a far credere puntando il dito sull’inefficienza del Sud, spiega il professor Enzo Di Maio, ma era una critica a coloro che dal Nord Italia venivano a speculare sulla sete del Sud. “Salvemini ce l’aveva con i liguri!”, tuona Di Maio spiegando che tutto ciò che serviva per la costruzione dell’acquedotto veniva direttamente da Genova. Neanche un chiodo veniva comprato in loco.
Il borgo antico, quasi completamente abbandonato dalla popolazione locale dopo la distruzione del terremoto del 1980, è insolitamente animato. È in corso il “Calitri Sponz Fest” di Vinicio Capossela, qualcosa di più di un festival musicale, un’iniziativa che come una scossa elettrica ha smosso la comunità: la signora Maria, che ci fa strada nel cuore del centro storico, dove sta andando a prendere sua figlia che partecipa ad un laboratorio di Slow Food sulla pasta, ci spiega che pur essendo nata e vissuta a Calitri è la prima volta che entra in queste stradine inerpicate sulla rocca, oggi rovine riscoperte, l’anima nascosta del paese.
Lasciandosi alle spalle l’aria frizzante dello Sponz Fest, si scende di nuovo verso la statale. E, sorpresa, a metà strada ecco un edificio d’epoca quasi nascosto dalla vegetazione selvaggia. È un impianto di sollevamento dell’acquedotto, ormai dismesso. Da qui, potenti pompe spingevano l’acqua su, per dare da bere a Calitri. Oggi questo è uno dei più begli esempi di archeologia industriale dove il tempo sembra essersi fermato fra attrezzi impolverati e antichi impianti. Si apre una porta, la stanza è vuota ma al centro ecco un bidone di latta d’epoca, con la scritta “Vacuum oil company – S.a.i. – Genova”. È la conferma, se ce ne fosse bisogno, che Salvemini aveva visto giusto. La mano dei genovesi regnava sovrana nell’Acquedotto Pugliese.
La strada, poi, è tutta in discesa fino alla statale. Direzione Atella, ancora Tir di auto e pomodori. Ma lo sforzo è ripagato dallo spettacolo che davanti a noi si apre prima del paese: la fiumara di Atella, piccolo affluente dell’Ofanto, sovrastata dal ponte canale dell’Acquedotto Pugliese, una delle opere più importanti, ma anche più armoniche della conduttura. Avventurarsi sul ponte è un privilegio che condividiamo con pastori e greggi, almeno a giudicare dalle evidenti tracce di escrementi di pecore che ci sono sul percorso. Lo percorriamo tutto, lasciamo le biciclette e ci affacciamo dall’altra parte. Sorpresa: il ponte è un piccolo colabrodo, da numerose fessure della conduttura si riversa nella fiumara di Atella un notevole volume d’acqua, perdite che tra l’altro alla lunga rischiano di mettere a rischio la stessa tenuta dell’antica struttura. Ma evidentemente non preoccupano più di tanto gli esperti e i tecnici dell’Acquedotto: quella che a noi sembra una notevole quantità d’acqua, per loro deve essere soltanto una goccia nell’oceano. O no?
Secondo giorno
28 agosto, Atella – Castel del Monte
A segnare la strada sono le fontanine dell’Acquedotto. Nel viaggio in bici, soprattutto d’estate, l’acqua è un bene prezioso quanto il fiato per scalare le salite. E poi, in questo tratto la condotta corre per la gran parte in gallerie che, una dopo l’altra, consentono al fiume sotterraneo di attraversare l’Appennino e arrivare nelle Murge.La seconda tappa, dall’agriturismo La Valle dei Cavalli di Atella, inizia dalla campagna, dolce ma brulla. Si ricomincia a pedalare sulla strade secondarie per immettersi sulla statale 658 Rionero, un passaggio obbligato per dirigersi verso il Vulture, imboccando la provinciale 8 dopo aver costeggiato Rionero. Si scende rapidamente a valle e mentre inizia la salita ecco davanti a noi un’allegra figura di ciclista: è un ragazzo di Varese, cappello di paglia a falde larghe, petto nudo e bici da escursione con pentola e coperchio piazzati sul portapacchi posteriore. È il primo, isolato, cicloturista che incontriamo: è in giro da più di due settimane, viene da Bari, dopo essere stato nei Balcani, ed è diretto a Napoli. Felice e solitario, come solo la bicicletta aiuta ad essere.
La salita verso Ginestra è impegnativa: in quattro chilometri si sale di oltre duecento metri. Questo è un paese con una comunità arbereshe, una colonia albanese che affonda le sue radici nel XV secolo, e dimostra che persino luoghi apparentemente desolati possono essere terra di incontri. E nella desolazione di campi bruciati dal sole si continua a pedalare attraversando il paesaggio quasi lunare della Basilicata, terra scura, arata da poco e percorsa dai trattori, che qui la fanno da padroni. Ettari ed ettari di collina per la gran parte deserta eppure curata (e sfruttata) dall’uomo come testimoniano quelle pale eoliche che, per fortuna non sempre, dominano il selvaggio orizzonte. Far West d’Italia. E a ricordarci che qui siamo nella terra dei “briganti” riemerge l’immagine di quella pistola d’epoca con cinturone a cartucciera che campeggiava sopra la porta dell’agriturismo che ci aveva offerto rifugio per la notte ad Atella.
Il percorso prosegue, con continui saliscendi, sulla provinciale 10 fino a Venosa, annunciata da un moderno serbatoio pensile dell’Acquedotto. E che cosa poteva esserci accanto se non un’acqua park? D’altronde la elegante cittadina lega la sua storia all’acqua, fin dai tempi dei Romani. E ancora oggi i suoi abitanti vanno alle fontanine pubbliche per approvvigionarsi dell’acqua freschissima che sgorga dai rubinetti, portandola a casa in thermos, di cui pochi sono sprovvisti. Già, perché evidentemente le fontanine pubbliche sono le prime diramazioni del canale principale, quel fiume di vita che scorre nel ventre di Venosa.
Si prosegue per diversi chilometri sulla provinciale 18 ofantina, scendendo per circa quattro chilometri e risalendo per altri tre fino ad arrivare alla provinciale 77 di Santa Lucia, che si imbocca in direzione Spinazzola. Sono venti chilometri di ideale percorso ciclabile, una strada asfaltata e scarsamente frequentata dal traffico automobilistico, che corre parallela alla nuova statale 655, con diversi pini che punteggiano il tracciato: un campo di pomodori annuncia che siamo entrati in Puglia.
All’ingresso di Spinazzola è una storica fontana a rinfrancare lo spirito per la sosta, proprio davanti ad un impianto dell’Acquedotto Pugliese. Si riparte per scendere nella valle e già si annuncia l’ascensione verso l’Alta Murgia: sono circa nove chilometri di salita impegnativa, per arrivare nel cuore del parco. Siamo sull’altopiano, lo sguardo si allarga verso est e nel verde spunta, maestoso, Castel del Monte. Uno spettacolo che oscura la fatica dei 90 chilometri alle spalle.
Terzo giorno
29 agosto, Castel del Monte – Alberobello
Riecco le tracce dell’acqua. Anzi, dell’Acquedotto Pugliese. Finite le gallerie, da qui la condotta corre sempre sotterranea ma è “protetta” da una pista di servizio che la segue per ben duecento chilometri. È qui, su queste strade sterrate, che nasce il sogno della pista dell’Acquedotto Pugliese: nata per monitorare la condotta, è di proprietà dell’ente e, dunque, tutti gli ingressi sono protetti da una sbarra e i cartelli che annunciano il “divieto di accesso”, proclamando la “proprietà privata” dell’Acquedotto. In realtà spesso e volentieri i cartelli sono illeggibili, se non divelti, mentre sbarre e cancelli sono aperti. A percorrere abitualmente questi tratturi sono i contadini e i pastori, ma da qualche tempo c’è un nuovo “pubblico”: lunghi tratti di sterrato sono sistematicamente appannaggio degli appassionati di mountain bike.
Non a caso qui siamo nel Parco dell’Alta Murgia, uno dei più grandi polmoni verdi di Puglia. E i percorsi che costeggiano i boschi lungo la condotta dell’Acquedotto sono in parte gli stessi individuati dall’ente parco per gli escursionisti, fra i querceti che rendono ombroso il procedere offrendo anche attrezzate aree di sosta. Si continua a pedalare per diversi chilometri, lungo sterrati che si alternano a tratturi e stradine asfaltate, fino ad uscire dal parco con alle spalle già una cinquantina di chilometri da Castel del Monte. L’Acquedotto riaffiora in un ardito ponte che attraversa alcune cave.
Non tutti i duecento chilometri di piste di servizio sono agibili. Anzi, in diversi tratti sono impraticabili, ricoperte da rovi e cespugli. Ma proseguendo verso sud il paesaggio cambia: con Cassano si aprono le porte del Barese, campagne curate, tanti impianti di ulivi e alberi da frutto, ma anche un territorio molto più urbanizzato con i suoi segni di cemento e asfalto. È come se si avvertisse la presenza vicina della metropoli di Puglia. Scorrono così le immagini della campagna di Acquaviva delle Fonti, Sammichele di Bari e Putignano che lungo tratturi, strade secondarie e percorsi cicloturistici tracciati dai Comuni, consentono di pedalare tra ulivi e muretti a secco, intervallati spesso da maestose querce.
Con i primi trulli e la strada che inizia dolcemente a salire, si aprono le porte della Valle d’Itria. Da Putignano si imbocca la statale per Alberobello, ma solo per un paio di chilometri perché poi un reticolo di strade secondarie, con continui saliscendi che fanno apprezzare meglio lo straordinario paesaggio, in una quindicina di chilometri conduce a destinazione: un trullo regale che domina Alberobello. Castel del Monte è ormai lontano 115 chilometri. La via dell’acqua guarda a sud.
Quarto giorno
30 agosto, Alberobello – Nardò
È il giorno della Ciclovia dell’Acquedotto. O meglio, di quell’unico tratto di dieci chilometri che la Regione Puglia ha completamente risistemato e inaugurato ufficialmente un paio d’anni fa come primo tassello di un progetto molto più ampio. Ma intanto da Alberobello ci sono da percorrere una ventina di chilometri e le tracce dell’Acquedotto sono ben visibili: la pista di servizio corre su sterrati e ponti-canale, naturalmente sempre senza grandi dislivelli, tra i trulli ristrutturati con piscina e la vegetazione selvaggia. Quando le pietre hanno il sopravvento sulla terra battuta, è il momento di imboccare strade secondarie asfaltate non per questo meno suggestive.Raggiungiamo contrada Figazzano, il punto indicato dove inizia il tratto di Ciclovia ed ecco la prima sorpresa: l’area ristoro attrezzata con panchine, tavoli e ombra (poca) non ha neanche una fontanina! Non è questa la Ciclovia dell’Acquedotto? Non solo, come fosse la stessa area della pista di servizio sterrata, campeggiano i “soliti” cartelli “divieto di accesso” e “proprietà privata – Acquedotto Pugliese”. Dopo l’inaugurazione, la burocrazia deve aver preso il sopravvento non riuscendo a risolvere i problemi di gestione di un’opera pubblica costata un milione di euro o giù di lì. Il risultato sono quei cartelli ben visibili ma sistematicamente ignorati da noi italiani che ben sappiamo come va la vita. Ma a un turista straniero chi glielo spiegherà mai?
Non cambia la situazione, cercando di imboccare la pista, stessi cartelli desolanti. E più in là ancora peggio: strada sbarrata da un impianto dell’Acquedotto prima e dalle sbarre dopo. Facciamo come tutti, scavalchiamo e lasciamo alle spalle la burocrazia. Adesso è il momento di “godersi” la pista.
E in effetti i dieci chilometri di strada bianca, una brecciolina ben compattata con polvere di tufo che si alza al passaggio delle bici, sono davvero una bella pista. Tutta in sede protetta, la strada attraversa angoli tipici della Valle d’Itria con la sua vegetazione rigogliosa, gli ulivi e i trulli. Le dolci pendenze del tracciato accompagnano una pedalata che qui è proprio alla portata di tutti, anche di chi non è proprio avvezzo alle due ruote. E lo storico Acquedotto regala scorci indimenticabili con i ponti-canale che attraversano la macchia superando i pendii.
Tutto però finisce troppo presto. Solo dieci chilometri, ed eccoci nel territorio di Ceglie Messapico. Come la peggiore delle incompiute, davanti non c’è più nulla. Gli altri dieci chilometri già finanziati sono solo sulla carta e dunque tocca imboccare la statale 581 in direzione Martina Franca. Per fortuna è solo un chilometro, perché poi si svolta sulla provinciale 65, una strada panoramica scarsamente trafficata, e, dopo una decina di chilometri, ancora sulla 67 per percorrere altri cinque-sei chilometri e raggiungere Villa Castelli.
Circondata da uliveti, al termine di una discesa, ai piedi del paese ecco la Centrale idroelettrica Battaglia. Chi l’avrebbe mai immaginato che il “fiume nascosto” possa produrre energia elettrica. Ci pensarono già negli anni Venti i progettisti della condotta, che sfrutta il dislivello di circa 120 metri: il salto dell’acqua alimenta una turbina che produce 33mila megawatt all’ora, energia sufficiente a servire una popolazione di 30mila abitanti. Inaugurata nel 1929, è stata riattivata nel 2009 con nuove tecnologie, dopo aver prodotto energia fino al 1971.
Una rete di percorsi ciclabili ben disegnati dai Comuni attraversa la campagna e i borghi di Francavilla Fontana, Oria ed Erchie. Si attraversa la statale 7 ter tra Manduria e San Pancrazio per dirigersi su un altro dei corsi d’acqua preziosi di Puglia: questa volta l’obiettivo è la pista di servizio del Consorzio di bonifica dell’Arneo, 40 chilometri di strada asfaltata che dolcemente corre parallela al litorale jonico del Nord Salento. La imbocchiamo all’altezza di Monteruga per percorrerla verso Nardò. Se non ci fossero rifiuti che spuntano ai bordi, sarebbe un itinerario cicloturistico perfetto. La strada affianca poi il cantiere per la realizzazione della nuova condotta dell’Acquedotto, da Salice Salentino a Seclì. Altri 40 chilometri che presto diventeranno una pista ciclabile in sede propria, secondo il progetto dell’Acquedotto nato su pressione dei Comuni. La Ciclovia dell’Acquedotto qui è già una realtà in movimento.
Quinto giorno
1° settembre, Nardò – Santa Maria di Leuca
Fra gli ulivi del Salento si pedala verso Finibusterrae. La prima tappa è fra Nardò e Galatone dove un antico edificio dell’Acquedotto, nascondo un impianto dismesso, oggi in stato d’abbandono. Meriterebbe una nuova vita, come quella che assicura il cantiere della nuova condotta che oramai ha quasi raggiunto il serbatoio di Seclì. Qualche fontanina, non sempre perfettamente funzionante, accompagna il percorso. E questa volta compare il fascio littorio: è il segno che questo secondo tratto, il Sifone Leccese, fu realizzato negli anni del fascismo che fece suo il progetto nato ai primi del Novecento, lasciandone traccia indelebile.La campagna corre veloce sulle serre salentine, tra muretti a secco e ulivi insidiati dalla Xylella, per aprire le porte del Capo. Gli ultimi 65 chilometri scorrono via in fretta, con l’ultima fermata a Leuca Piccola, come antichi pellegrini. Poi la discesa verso Santa Maria di Leuca e l’arrivo al piazzale del Santuario, dopo poco più di 474 chilometri da Caposele. Eccola ai nostri piedi la Cascata Monumentale dell’Acquedotto Pugliese, voluta dal regime per celebrare trionfalmente l’arrivo dell’acqua nel Salento. Fu inaugurata nel 1939, un grande monumento al progresso con i suoi 250 metri di lunghezza e i 120 metri di dislivello, con una portata di mille litri al secondo.
È rimasta a secco per anni, aperta solo in eccezionali occasioni. Quest’anno è stato realizzato un impianto di illuminazione artistica e la gestione è passata al Comune che ora la alimenta con acqua sorgiva non potabile, oltre che con quella di risulta dell’Acquedotto. Così nell’estate 2015 ogni venerdì alle 22 si aprono i rubinetti e si rinnova lo spettacolo dal forte potere evocativo: l’uomo che oggi, come cento anni fa, riesce a vincere la sete. Il racconto di questo riscatto, dal Sele a Leuca, corre sulle due ruote.